Il teatro è passione, entusiasmo, mettersi in gioco nel vestire i panni di qualcun’altro, e può avere anche finalità terapeutiche. Aiuta l’introspezione, a conoscersi meglio e superare limiti o ostacoli. Chi fa teatro lo sa bene e vive con intensità le emozioni che quest’arte antichissima può dare, oltre ai consensi gratificanti del pubblico che assiste agli spettacoli.
Quegli applausi ripagano le mille prove sul palco, i sacrifici, la dedizione, l’impegno costante, l’attesa e l’ansia prima di ogni entrata in scena. Passione, empatia e talento sono aggettivi che calzano perfettamente per descrivere un giovane e promettente attore teatrale gravinese (avvocato per professione) della compagnia Terra Smossa: Giuseppe Lospalluti.
Abbiamo fatto con lui una piacevole chiacchierata per scoprire qualcosa in più sul dietro le quinte.
Cosa vuol dire per lei fare teatro?
Per me fare teatro risponde ad una esigenza specifica di distacco dalla routine quotidiana per entrare in un mondo differente, a volte fantastico, a volte miserabile, a volte paradossale che, in tutti i modi, molto spesso, non coincide col mio. Mi piace trasmettere al pubblico le emozioni che i testi ed i personaggi mi suscitano per condividerle con loro. Io lo definisco un meccanismo circolare dell’emozione: dal testo a me, da me al pubblico e dal pubblico nuovamente a me per rientrare nel testo, che diventa il sacello delle emozioni stesse.
È difficile coltivare questa passione nel nostro territorio?
Io trovo che non sia difficile nel nostro territorio coltivare questa passione perché ci sono diverse associazioni che si occupano di questo. Gran parte delle quali sono senza scopo di lucro.
Certamente la scelta poi dipende dalla tipologia teatrale cui un soggetto voglia aderire. Mi spiego meglio. Sono in pochi a farsi promotori del teatro classico, del c.d. teatro di parola, che io pratico da anni e che indubbiamente richiede, da parte di tutti gli operatori del settore, un grande sforzo proprio nell’approccio allo studio del testo. Con conseguente sacrifico umano in termini di tempo da dedicarvi.
Ammiro molto uno dei registi che nel nostro territorio riesce a fare questo che è Gianni Ricciardelli. E non lo dico perché sia il mio regista, ma perché ho potuto tastarne con mano la passione che lo pervade, con conseguente suo sacrificio umano e professionale. Nel rispondere ancora alla sua domanda, rilevo che una difficoltà che si riscontra nel coltivare questa passione sul territorio attenga ai luoghi specifici, ai contenitori delle rappresentazioni stesse cioè ai teatri. A Gravina ci sono tre grossi contenitori che ormai possiamo definire cimiteri, due dei quali in disuso da tempo e l’ultimo dismesso circa un mese fa. L’unica oasi di benessere per le rappresentazioni teatrali sul territorio di Gravina è costituita solo dal teatro Vida che, sebbene non di grandi dimensioni, riesce a farsi veicolo di questa nobile e antichissima arte.
Qual è il ruolo che le è piaciuto di più interpretare?
Penso che il personaggio che mi sia piaciuto di più debba ancora arrivare. Le direi l’ultimo da me interpretato: Oberon in “Sogno di una notte di mezza estate” di W. Shakespeare. Ma forse mentirei, perché mi son piaciuti tutti dal momento che, di fatto, li ho scelti. O forse sono loro ad aver scelto me!
Teatro a scuola, cosa ne pensa? Sarebbe utile per insegnare ai ragazzi a mettersi nei panni dell’altro?
Penso tutto il bene possibile. Ma più che per la finalità di mettersi nei panni dell’altro, penso che il teatro farebbe bene ai giovani in tutte le sue sfumature ed in tutte le tipologie di corso di studio. Dovrebbero inserirlo nei programmi ministeriali, come disciplina autonoma, sin dalla scuola dell’obbligo, come accade ad esempio negli Usa. Non solo perché attraverso esso i ragazzi raggiungerebbero una immediata comprensione del testo letterario, che spesso non riesce ad essere veicolata con l’insegnamento frontale, tradizionale, ma anche perché, attraverso il meccanismo dell’immedesimazione, si aiuterebbe il bambino, e poi l’adolescente, a capire se stesso in funzione di cosa vorrà essere da grande.
Cosa direbbe a chi vuole avvicinarsi al teatro?
Direi di affrontarlo senza pregiudizi, di non fermarsi alle apparenze, ma di scendere in profondità, senza banalizzare nulla di esso. Fare teatro non significa “fare la recita” come in molti sento dire. Significa mettere le mani nell’arte che, per la vita di ciascuno di noi, può essere finanche terapeutico, perché trascende l’ordinario per volgersi allo straordinario.