Condannato a quindici anni di reclusione per omicidio. Questa la sentenza emessa dalla corte di Bari nei confronti di Gaetano Scalese, l’unico imputato per l’omicidio di Pietro Capone, il cinquantenne freddato la sera del 10 marzo 2014 a pochi passi da casa.
Una sentenza, attesa già dallo scorso aprile, e arrivata nel primissimo pomeriggio di lunedì dopo numerosi rinvii e dopo che la Corte ha chiesto più volte di ridiscutere le prove a carico di Scalese.
Si conclude così il processo di primo grado cominciato a dicembre 2019 e per il quale si sono celebrate una cinquantina di udienze in tre anni, utili ad ascoltare i tanti testimoni convocati sia dalla Procura che dalla difesa.
L’accusa aveva chiesto per Scalese 22 anni di reclusione mentre le parti civili, tra cui la famiglia di Capone, hanno chiesto l’ergastolo. Di tutt’altra natura era la tesi della difesa guidata dagli avvocati Saverio Verna e Andrea Di Comite che chiedeva l’assoluzione poiché, come ribadito in più udienze, a carico di Scalese ci sarebbero solo indizi e non prove. E infatti noto che tra Scalese e Capone ci fossero dei dissapori legati ad alcuni progetti edilizi sfociati anche in denunce reciproche. Tuttavia secondo la difesa questo non costituisce alcuna prova.
A pochi minuti dalla sentenza, l’avvocato Saverio Verna ha espresso la sua perplessità nei confronti di una sentenza emessa “solo sulla base di indizi e non di prove. Non c’è mai stata una prova schiacciante contro l’imputato. Toccherà attendere novanta giorni per il deposito della motivazione, sulla base del quale capiremo il ragionamento che ha portato la corte a condannare l’imputato. Lette le motivazioni quasi sicuramente procederemo con l’impugnazione” conclude il legale di Scalese.